Ciò che distingue il rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo è la subordinazione. Questa implica la disponibilità del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento al potere organizzativo, direttivo e disciplinare, e l’inserimento nell’organizzazione aziendale, fornendo esclusivamente le energie lavorative necessarie all’attività d’impresa.
La subordinazione, tuttavia, non è sempre facilmente riconoscibile.
Può succedere che contratti di lavoro definiti come autonomi o collaborativi nascondano rapporti di natura subordinata.
Ciò che conta sono le reali modalità con cui viene svolta la prestazione lavorativa, da valutare nel suo complesso. La giurisprudenza sostiene che qualsiasi attività può essere svolta sia in regime di autonomia che di subordinazione, a seconda delle modalità concrete del suo svolgimento. La qualificazione del rapporto, quindi, non dipende dalla natura o dal tipo di attività prestata, ma dalle modalità con cui viene eseguita.
Indici di subordinazione sono stati individuati nella collaborazione con l’imprenditore, intesa come continuità e sistematicità della prestazione di lavoro, nella continuità temporale dell’attività, nel rispetto di un determinato orario, nella forma della retribuzione, nell’esistenza o meno di un’organizzazione imprenditoriale in capo al lavoratore, e nell’incidenza del rischio soggettivo. Tuttavia, tali criteri devono essere considerati privi di un valore decisivo autonomo, in quanto elementi secondari e complementari rispetto all’unico elemento determinante: la dimostrazione dell’esistenza del vincolo di subordinazione.
Secondo la sentenza n. 448/2018 resa dalla Corte di Cassazione “l’elemento distintivo tra il rapporto di agenzia e il rapporto di lavoro subordinato va individuato nella circostanza che il primo ha per oggetto lo svolgimento a favore del preponente di un’attività economica esercitata in forma imprenditoriale, con organizzazione di mezzi e assunzione del rischio da parte dell’agente, che si manifesta nell’autonoma scelta dei tempi e dei modi della stessa, pur nel rispetto secondo il disposto dall’art. 1746 cod. civ. delle istruzioni ricevute dal preponente, mentre oggetto del secondo è la prestazione, in regime di subordinazione, di energie lavorative, il cui risultato rientra esclusivamente nella sfera giuridica dell’imprenditore, che sopporta il rischio dell’attività svolta, (cfr. Cass., n. 9696 del 2009; Cass., n. 9060 del 2004). 6.
Quanto allo schema normativo di cui all’art. 2094 cod. civ., si è precisato che costituisce elemento essenziale, come tale indefettibile, del rapporto di lavoro subordinato, e criterio discretivo, nel contempo, rispetto a quello di lavoro autonomo, la soggezione personale del prestatore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e non già soltanto al suo risultato, (cfr. Cassa, 27.2.2007 n. 4500).(…)10. La Corte d’appello ha correttamente individuato gli elementi indiziari dotati di efficacia probatoria sussidiaria (e non decisiva) ai fini della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro, tenuto conto dei parametri normativi del lavoro subordinato ed autonomo e del discrimine tra gli stessi. Ha, in particolare, individuato ed analizzato i seguenti elementi: la sottoposizione della lavoratrice, al pari dei dipendenti formalmente subordinati, a specifiche e vincolanti istruzioni per la gestione della clientela, a ripetuti richiami al rispetto delle procedure dettate, a turni di lavoro e feriali stabiliti unilateralmente dalla società; lo svolgimento dell’attività esclusivamente nei locali aziendali e con strumenti forniti dalla società; l’assenza di qualsiasi rischio imprenditoriale e della pur minima organizzazione in capo alla lavoratrice; la gestione contabile dell’attività di quest’ultima ad opera dell’ufficio amministrativo della società che predisponeva le fatture per il pagamento delle provvigioni, Ha proceduto ad una valutazione complessiva degli stessi verificandone la concordanza e l’idoneità ad integrare una valida prova presuntiva”.
È irrilevante la denominazione giuridica attribuita dalle parti al contratto (c.d. nomen iuris) dovendosi dare maggior importanza all’effettivo comportamento che esse hanno avuto durante lo svolgimento del rapporto stesso rispetto alla volontà manifestata al momento della stipula. La Suprema Corte (cfr. Cass. 25711/2018), ha anche sostenuto, però, che il nomen iuris non può essere del tutto trascurato rappresentando un elemento sussidiario da valutare.
Il lavoratore ha il pieno diritto di tutelare i propri interessi ottenendo il riconoscimento della natura subordinata del proprio impiego, a prescindere dalla qualificazione attribuita al rapporto di lavoro al momento della firma del contratto. Con l’ordinanza del 4 marzo 2020 – 5 luglio 2021, n. 18943, la Suprema Corte ha chiarito che “chi richiede il pagamento di crediti retributivi deve dimostrare la natura subordinata del rapporto di lavoro”. Pertanto, il lavoratore che intende far valere in giudizio l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato è tenuto a fornire la prova concreta degli elementi di fatto che corrispondono alla fattispecie astratta, ovvero deve dimostrare la presenza dei requisiti di eterodirezione e del potere di direzione e controllo esercitato dal datore di lavoro nei suoi confronti.